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La svolta di Antonio (terza parte) – “Guardare avanti: costruire qualcosa di più”

Introduzione

Questa è la terza parte della testimonianza di Antonio. Qui potrete leggere la prima parte Quando scatta qualcosa e la seconda parte Famiglia, dolore, consapevolezza

Antonio è un dentista. Un uomo preciso, razionale, abituato a lavorare con le mani e con la mente. La sua è sempre stata una vita “funzionante”: una professione solida, un figlio di cui prendersi cura, una routine che sembrava normale. Eppure, dietro quella normalità apparente, si nascondeva una dipendenza silenziosa, vissuta quasi come un’abitudine serale, qualcosa da tenere a bada senza mai affrontarla davvero.

Tutto è cambiato all’improvviso. Non con un evento eclatante, ma con un click interiore. Una consapevolezza inaspettata, arrivata una sera a casa, da solo. Senza clamore, ma con la forza di una valanga.

Oggi Antonio è ancora in cammino. Non si definisce “guarito”, ma qualcosa dentro di lui è cambiato in modo irreversibile. E ha deciso di raccontarlo. Per sé. Per Luca, suo figlio. E per chi, come lui, ha bisogno di riconoscere il momento in cui tutto può – finalmente – ricominciare.

Guardare avanti: costruire qualcosa di più

“Non voglio tornare a com’era prima. Voglio costruire qualcosa di meglio.”

Per Antonio, uscire dalla dipendenza non significa tornare indietro. Non si tratta di recuperare la vita “di prima”, ma di immaginarne una nuova, più consapevole, più solida, più viva.

“Se sei finito in una situazione così, vuol dire che quello che avevi prima non bastava.”

Con questa consapevolezza, Antonio ha iniziato a trasformare anche il suo lavoro. Non lo ha abbandonato – è ancora dentista, ancora ortodontista – ma ha scelto di cambiare prospettiva. Ha alleggerito le parti più ripetitive, quelle che lo svuotavano, e ha ricercato stimoli nuovi, integrando consulenze medico-legali e attività che gli permettono di usare anche altre risorse.

“Mettere gli apparecchi ai bambini è un lavoro meccanico. Bello, ma ripetitivo. Dopo vent’anni, avevo bisogno di qualcosa che mi facesse sentire utile in modo diverso.”

Anche il tempo libero ha preso un nuovo significato. Piccoli progetti, nuovi interessi, attività che prima sembravano lontane. Antonio oggi cerca, esplora, si muove. Non per riempire il vuoto, ma per alimentare un senso di espansione. Di vita che cresce.

“Voglio più cose da fare. Voglio avere sempre qualcosa da aspettare.”

Non si tratta solo di attività. Si tratta di identità. Di riscoprirsi come uomo, come padre, come professionista. E soprattutto, come presenza stabile nella vita di Luca.

“Non basta essere sobri. Bisogna essere orgogliosi di provarci. Ogni giorno.”

Antonio non si racconta come un eroe. Ma come un uomo che ha scelto di fermarsi, guardare in faccia il dolore e ripartire. Con un progetto più grande di sé: ricostruire qualcosa che non c’era mai stato davvero.

Il consiglio: non avere paura di essere duri

“Se qualcuno che ami sta affondando, non aspettare. Fagli quello che le mie sorelle hanno fatto a me.”

Antonio non ha dubbi. Se oggi è qui a raccontare la sua storia, è anche grazie al coraggio di chi, un giorno, ha smesso di proteggere la sua zona di comfort e gli ha detto la verità in faccia. Senza mezze misure. Senza paura di ferirlo.

“Mi hanno affrontato. Mi hanno detto: Antonio, così non va. Non puoi andare avanti così. È stato durissimo. Ma mi ha salvato.”

La parola giusta per descrivere quel momento è “intervento”. Un gesto di rottura, sì, ma mosso da amore e responsabilità. Non un’aggressione, ma un atto di cura profonda. Per Antonio è stata una scossa, una crepa che ha fatto entrare luce.

“Se hai un fratello, un amico, una compagna in quella situazione, non devi aspettare che tocchi il fondo. Perché a volte il fondo è troppo tardi.”

E per chi non ha una famiglia pronta a intervenire? Antonio lo dice con franchezza: “La comunità è fondamentale”. Che sia un terapeuta, una struttura, una rete. Qualcuno che tenga il filo quando tutto si sfilaccia.

“Da soli si fa più fatica. Ma non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto. E se non c’è una sorella o un fratello, deve esserci una comunità.”

Le sue parole non sono solo una testimonianza. Sono un invito, quasi un appello, rivolto a chi si trova ai margini di una dipendenza invisibile, o a chi sta guardando qualcuno cadere senza sapere cosa fare.

“Meglio un confronto difficile oggi che un silenzio colpevole domani.”

Per Antonio, la sincerità è stata un atto di amore. E oggi è pronto a ridarla indietro, con la stessa onestà.

Un’eredità invisibile

“Forse l’ho fatto quando Luca aveva nove anni, perché io, a dodici, ho visto mia madre distruggersi. E non volevo che gli succedesse lo stesso.”

La storia di Antonio non nasce dal nulla. È il frutto di una lunga catena invisibile, fatta di silenzi, di dolore taciuto, di modelli familiari distorti. Quando parla della madre, la voce si fa più sottile, più ruvida. Era alcolista. Ricoverata. Poi volontaria in un centro d’ascolto. Poi malata di sclerosi multipla.

Crescere in quel contesto ha lasciato un segno. Un’eredità silenziosa. E forse, dice Antonio, quel click improvviso è arrivato proprio perché non voleva che Luca vedesse lo stesso film. Non voleva che anche lui si trovasse, da adolescente, a dover decifrare una genitorialità assente, incongruente, confusa.

“Io lavoravo sempre. Lei c’era, ma non c’era. Era un controsenso continuo. Luca mi vedeva sul divano a recuperare il lavoro che non avevo fatto durante il giorno. E io gli chiedevo di dare il massimo in tutto. Come poteva capirmi?”

Essere padre, per Antonio, ha significato guardarsi allo specchio. E decidere, per la prima volta, di interrompere un ciclo. Di spezzare quella catena intergenerazionale di assenze e dipendenze. Di scegliere la presenza, anche se imperfetta, come atto di riparazione.

“Non sarò mai perfetto. Ma voglio essere lì. Sempre. Non solo col corpo. Ma con la testa, col cuore, con la verità.”

Oggi Luca ha dieci anni. È lo stesso numero degli anni che Antonio sente di aver buttato via. Ma è anche un nuovo inizio. Una possibilità concreta di fare meglio. Non perché tutto sia risolto. Ma perché finalmente, c’è qualcuno che sceglie di esserci.

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Per chi è in difficoltà: un messaggio di speranza

Se stai attraversando una situazione simile, o se una persona a te vicina sta affondando nel silenzio, sappi che non sei solo. Le dipendenze possono avere mille volti, anche quelli più insospettabili. Ma c’è sempre un momento in cui si può fermare la discesa. Un momento per chiedere aiuto. O per offrirlo.

Alla Fondazione Laura e Alberto Genovese ci impegniamo ogni giorno per accompagnare le famiglie in questi percorsi complessi. Perché non basta smettere. Bisogna anche ricominciare a vivere.

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