Introduzione
Terza parte della testimonianza di Gianni. Qui potrete leggere la prima parte “Il crollo silenzioso” e la seconda parte “Accettare la malattia: il punto di svolta”
Gianni ha usato sostanze per più di trent’anni. Dai 13 ai 38 anni, senza interruzioni significative. Eppure, chi lo conosceva non avrebbe mai pensato di definirlo un “dipendente”. Sempre attivo, imprenditore, padre presente, capace di alzarsi ogni mattina, di lavorare, di fare sport. Un uomo, in apparenza, pienamente funzionale.
Trasformare la vulnerabilità in comunità
Per Gianni, la svolta più profonda non arriva solo dalla cura, ma dalla condivisione. È quando smette di vergognarsi della propria sensibilità — e anzi, la riconosce come una forza — che inizia a ricostruirsi davvero. Dentro e fuori dalla comunità.
“La mia parte femminile, la mia empatia, la mia fragilità… ho passato anni a nasconderle. Poi ho capito che erano la mia vera ricchezza.”
Durante un gruppo, incontra un ragazzo in transizione di genere. Una persona con una storia diversa dalla sua, ma con la stessa fame di autenticità. Si crea un momento di grande empatia, uno scambio umano potente, che lo tocca nel profondo.
“Quando ho visto quella dolcezza negli occhi, ho capito che la sensibilità non è di genere. È un dono. Non va nascosta. Va protetta.”
È lì che si spezza qualcosa. O forse, si ricuce. Riconosce in quell’incontro la propria paura più grande: la solitudine. Una parola che, quando finalmente riesce a pronunciare, lo fa crollare in lacrime. Ma è un crollo liberatorio.
“Ho sempre avuto una famiglia bellissima, ma ho vissuto con la paura di restare solo. E se fossi rimasto solo, non mi sarei protetto.”
Da questa presa di coscienza nasce una nuova motivazione: costruire relazioni sane, vere, paritarie. Creare attorno a sé una comunità, anche nel lavoro. E così fa: assume persone da contesti fragili, crea un ambiente dove ci si ascolta, dove si pranza insieme, dove la vulnerabilità è accolta.
“Mi sono creato la mia comunità. Al lavoro, nella vita. Perché la forza non è nell’essere invincibili. È nel potersi sostenere a vicenda.”
Gianni non si racconta come un guru. Ma come un uomo che ha scelto di non nascondere più le proprie cicatrici. E che ha capito che solo mettendole in comune si può guarire davvero.
Vivere il presente, proteggersi ogni giorno
Oggi Gianni non insegue più un ideale di perfezione. Ha imparato a vivere nel presente, con misura e consapevolezza, prendendosi il tempo per ciò che lo fa stare bene. Piccoli riti, momenti per sé, gesti semplici che hanno un valore profondo: sono i suoi strumenti quotidiani di protezione.
“Ogni sabato vado a farmi un massaggio thailandese. Ogni mattina faccio sport, anche solo mezz’ora a corpo libero. Non per performance, ma per stare bene.”
Non è egoismo. È cura. È un modo per non dimenticare da dove viene. Per ricordare, ogni giorno, che c’è una parte di sé che va nutrita, rispettata, ascoltata. E che se lui sta bene, anche chi gli è intorno può beneficiarne.
“Se penso a me, sto bene. E se sto bene, chi mi ama è contento. Non è il contrario.”
Ha imparato anche a porre limiti, a dire no, a proteggere i propri spazi interiori. Non per escludere gli altri, ma per non perdersi di nuovo nel tentativo di piacere, di rassicurare, di “essere all’altezza”.
“Ho capito che non posso fare tutto per tutti. Non posso più essere solo padre, marito, amico. Devo prima essere Gianni. Per me.”
Il percorso non è finito. Non lo sarà mai. Ma oggi Gianni vive con una nuova sobrietà: quella mentale, quella emotiva. Sa che il rischio è sempre lì, ma non lo nega, non lo sfida, non lo dimentica. Lo guarda in faccia. E ci costruisce attorno una vita.
“Ogni giorno mi sveglio e scelgo di proteggermi. È così che si vince. Non una volta per tutte. Ma ogni giorno, un po’ di più.”
Per le famiglie: amore fermo, non complice
Gianni lo dice chiaramente: chi ama davvero, deve avere il coraggio di non assecondare. Per lui, i confini posti dalla moglie e la determinazione del padre sono stati decisivi. Non gesti di rottura, ma atti estremi di protezione.
“Una famiglia non deve essere condiscendente. Deve dire: se continui così, noi non ci siamo più.”
Non è facile. Anzi, spesso è uno degli atti più dolorosi. Ma continuare a coprire, a scusare, a proteggere chi si sta facendo del male può diventare una forma di complicità inconsapevole.
“Quando mia figlia mi ha detto: per me sei morto, ho sentito le gambe cedere. Ma quella frase mi ha salvato. Mi ha costretto a guardarmi. A scegliere.”
Per Gianni, è fondamentale che le famiglie trovino il modo di esserci senza perdersi. Di dare sostegno, ma senza annullarsi. Di offrire una possibilità, senza rincorrere chi non vuole cambiare. Perché il cambiamento può iniziare solo da dentro.
“Se vuoi aiutare davvero qualcuno, mettilo nella condizione di salvarsi. Ma non salvarlo tu. Perché non puoi.”
Le parole che gli restano dentro, oggi, non sono quelle dure. Sono quelle oneste. Quelle che lo hanno costretto a fermarsi. A smettere di fare il padre modello, il marito presente, l’amico affidabile… per imparare a essere, prima di tutto, uomo con sé stesso.