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La storia di Gianni (seconda parte) – “Accettare la malattia: il punto di svolta”

Introduzione

Seconda parte della testimonianza di Gianni. Qui potrete leggere la prima parte “Il crollo silenzioso” 

Gianni ha usato sostanze per più di trent’anni. Dai 13 ai 38 anni, senza interruzioni significative. Eppure, chi lo conosceva non avrebbe mai pensato di definirlo un “dipendente”. Sempre attivo, imprenditore, padre presente, capace di alzarsi ogni mattina, di lavorare, di fare sport. Un uomo, in apparenza, pienamente funzionale.

La comunità come casa e specchio

Per Gianni, l’ingresso in comunità non è una rinuncia alla libertà, ma il suo esatto contrario. È la prima volta che si sente davvero libero, al sicuro, circondato da persone che non lo giudicano e che – come lui – portano dentro ferite e contraddizioni.

“Lì dentro ho trovato la mia libertà. Potevo donarmi, condividere, essere me stesso. Fuori mi sentivo imprigionato. Dentro, no.”

Il Crest diventa uno spazio di rigenerazione. Non solo fisica, ma emotiva. Gianni riscopre la lentezza, la quotidianità, i piccoli gesti. Ricomincia dall’energia del corpo, dalla condivisione, dalla forza del gruppo. Impara a fidarsi, ad affidarsi, a raccontarsi.

“Ho iniziato a dedicarmi agli altri. Ed è stato curativo. Mi ha fatto bene più di qualsiasi medicina.”

In quei cinque mesi, però, non riesce ancora a toccare il nucleo profondo del suo dolore. È concentrato sulla sopravvivenza, sul ricostruire una base. Ha troppi pensieri, troppe responsabilità lasciate fuori: due figlie, un’azienda in difficoltà, un’identità ancora fragile.

Il vero lavoro psicologico, quello sul “perché” e non solo sul “come”, arriverà dopo. Ma già in quei mesi nasce una consapevolezza nuova: che la fragilità non è una colpa. Che il dolore condiviso può diventare forza. Che non serve essere eroi, basta essere onesti.

E proprio questa onestà – con sé stesso e con gli altri – sarà la base su cui costruire tutto ciò che verrà dopo.

La ricaduta: un grido d’aiuto travestito

Dopo due anni e mezzo di relativa stabilità, Gianni ricade. Non in modo plateale, ma in una serie di piccoli episodi che si fanno spazio nella sua vita come scivolate “giustificabili”. Un bicchiere di vino con la moglie. Un aperitivo con gli amici. E, passo dopo passo, la soglia si abbassa.

“Inizi a dirti: ma sì, è solo un bicchiere. Sei in una situazione protetta, no? Poi esci e bevi ancora. La regola è rotta. E dimentichi da dove vieni.”

Ma l’ultima ricaduta non è casuale. Non è solo disattenzione o leggerezza. È quasi un tentativo inconscio di chiedere aiuto, di farsi scoprire. Gianni chiama la moglie da solo, durante un momento in cui avrebbe potuto tacere. E in quella telefonata, volutamente ambigua, lascia intravedere il baratro.

“Era come se volessi che mi beccasse. Come se dentro di me sperassi che qualcuno mi fermasse.”

La risposta arriva. Forte. La moglie, che fino a quel momento aveva coperto tutto, decide di raccontare la verità alle figlie. E una di loro, con parole dure e limpide, colpisce il cuore di Gianni come mai prima:

“Mi ha detto: per me sei morto. Per me non sei più mio padre.”

È lì che qualcosa cambia. Non perché vuole recuperare il ruolo di padre. Ma perché capisce che non può più fare le cose per gli altri. Che, per salvarsi, deve scegliere se stesso.

“In quel momento ho smesso di voler essere il bravo papà, il bravo marito. Ho iniziato a pensare: devo diventare il bravo Gianni. Per me.”

Rientra in comunità. Lo staff lo accoglie. È un ritorno consapevole, scelto. E, stavolta, ha l’energia giusta per lavorare su ciò che aveva lasciato in sospeso. Non è una caduta. È una rinascita più profonda.

Accettare la malattia: il punto di svolta

Il vero cambiamento per Gianni arriva quando smette di combattere contro l’idea stessa della dipendenza. Non come debolezza, ma come malattia cronica e irreversibile. Una condizione con cui convivere ogni giorno, con rispetto, lucidità e umiltà.

“Quando smetti di sprecare energia per negare ciò che sei, quella stessa energia puoi usarla per costruire qualcosa di vero.”

Fino a quel momento, aveva sempre provato a conciliare due mondi: quello dell’efficienza, del successo, della prestazione… e quello della sua fragilità. Ma c’era una dissonanza di fondo: non si era mai dato il permesso di ammettere che aveva un limite.

“Io ho sempre voluto gestire tutto. Fare tutto. Ma quella roba lì — la dipendenza — non si gestisce. O la riconosci, o ti distrugge.”

Accettare non vuol dire arrendersi. Vuol dire guardare in faccia la realtà, decidere di proteggersi, imparare a dirsi no, fissare limiti sani. Non per privarsi, ma per sopravvivere. E vivere bene.

Gianni ha fatto pace con la sua condizione. L’ha riconosciuta. L’ha messa al centro. E ha iniziato a costruirci attorno una vita nuova. Più semplice, più vera, più sua. Ha lasciato andare l’illusione di poter “guarire” nel senso comune. Ha abbracciato invece una forma di equilibrio fatta di attenzione quotidiana, piccoli gesti, consapevolezza.

Trasformare la vulnerabilità in comunità

Per Gianni, la svolta più profonda non arriva solo dalla cura, ma dalla condivisione. È quando smette di vergognarsi della propria sensibilità — e anzi, la riconosce come una forza — che inizia a ricostruirsi davvero. Dentro e fuori dalla comunità.

“La mia parte femminile, la mia empatia, la mia fragilità… ho passato anni a nasconderle. Poi ho capito che erano la mia vera ricchezza.”

Durante un gruppo, incontra un ragazzo in transizione di genere. Una persona con una storia diversa dalla sua, ma con la stessa fame di autenticità. Si crea un momento di grande empatia, uno scambio umano potente, che lo tocca nel profondo.

“Quando ho visto quella dolcezza negli occhi, ho capito che la sensibilità non è di genere. È un dono. Non va nascosta. Va protetta.”

È lì che si spezza qualcosa. O forse, si ricuce. Riconosce in quell’incontro la propria paura più grande: la solitudine. Una parola che, quando finalmente riesce a pronunciare, lo fa crollare in lacrime. Ma è un crollo liberatorio.

“Ho sempre avuto una famiglia bellissima, ma ho vissuto con la paura di restare solo. E se fossi rimasto solo, non mi sarei protetto.”

Da questa presa di coscienza nasce una nuova motivazione: costruire relazioni sane, vere, paritarie. Creare attorno a sé una comunità, anche nel lavoro. E così fa: assume persone da contesti fragili, crea un ambiente dove ci si ascolta, dove si pranza insieme, dove la vulnerabilità è accolta.

“Mi sono creato la mia comunità. Al lavoro, nella vita. Perché la forza non è nell’essere invincibili. È nel potersi sostenere a vicenda.”

Gianni non si racconta come un guru. Ma come un uomo che ha scelto di non nascondere più le proprie cicatrici. E che ha capito che solo mettendole in comune si può guarire davvero.

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