1. Il contesto
Un dialogo autentico per capire davvero
La Fondazione Laura e Alberto Genovese nasce per offrire supporto concreto e umano alle famiglie che affrontano situazioni di dipendenza e disagio socio-sanitario. Al centro del nostro impegno c’è il desiderio di ascoltare, accogliere e orientare. Ma anche di raccontare la realtà per quella che è, senza filtri, per aiutare chi soffre a non sentirsi solo.
In questa intervista Vittorio Tanzi, psicologo e referente di Comunità Terapeutiche con trent’anni di esperienza sul trattamento delle dipendenze, ci accompagna in una riflessione profonda: sulle fragilità, sulle famiglie, sulle comunità terapeutiche e su quel filo sottile che separa la speranza dalla negazione.
Chi è Vittorio Tanzi
Psicologo, psicoterapeuta, figura storica nel trattamento delle dipendenze, Vittorio ha vissuto da vicino l’evoluzione di questo mondo — dalle prime emergenze tossicologiche degli anni ’80 fino ai percorsi post-residenziali odierni.
Perché è importante ascoltare chi lavora sul campo
C’è una grande differenza tra parlare di dipendenze e lavorare ogni giorno accanto a chi le vive. Chi, come Vittorio, ha vissuto centinaia di storie, ha un punto di vista che va oltre le teorie. Conosce la fatica, i fallimenti, i piccoli miracoli. E soprattutto sa parlare alle famiglie — con rispetto, con verità, senza illusioni.
2. Il ciclo della dipendenza
Non è (quasi) mai una scelta consapevole
Una delle verità più difficili da accettare è che le persone raramente chiedono aiuto da sole. «In 30 anni — racconta Vittorio — ho visto pochissimi casi di ingresso volontario in comunità». Di solito accade qualcosa che interrompe il ciclo: un arresto, un ricovero, un ultimatum della famiglia. È quel momento di crisi che apre uno spiraglio per iniziare un percorso.
Le famiglie agiscono per prime, spesso senza strumenti
In moltissimi casi, è la famiglia a rendersi conto che qualcosa non va. Ma non sapere cosa fare può diventare un freno pericoloso. I genitori, i partner, i fratelli si trovano davanti a una montagna di dubbi, paure, false credenze. Possono oscillare tra il controllo ossessivo e la negazione, tra la rabbia e l’eccessiva tolleranza. E intanto, il tempo passa.
Prima di tutto: orientare i familiari
«Le famiglie vanno orientate», dice Vittorio con forza. Serve spiegare cosa significa davvero “dipendenza patologica”, quali sono i percorsi possibili, quali errori evitare. L’informazione corretta, empatica, è la prima forma di aiuto. Aiutare le famiglie a capire non solo cosa fare, ma come farlo bene, può fare la differenza tra un intervento efficace e un tentativo che peggiora la situazione.
3. Il ruolo della famiglia
Oltre l’amore: quando l’aiuto diventa inconsapevole complicità
Quando in una famiglia c’è una persona che soffre di dipendenza, spesso tutti — in modi diversi — entrano nel “copione” della malattia. Lo chiamano co-dipendenza: un sistema di dinamiche inconsapevoli in cui chi sta accanto al malato finisce per sostenerne, senza volerlo, il comportamento distruttivo. Può succedere per paura, per senso di colpa, per istinto di protezione. Ma accade.
«A volte — spiega Vittorio — il malato diventa il fulcro identitario della famiglia. È su di lui che si scaricano tensioni, si costruiscono ruoli, si mantengono equilibri. In questi casi, anche se tutti soffrono, nessuno riesce davvero a cambiare».
Una presenza che cura, se è consapevole
Il paradosso è che la famiglia può essere sia un ostacolo che una risorsa potentissima. Studi ed esperienze cliniche mostrano chiaramente che, quando i familiari sono coinvolti nel trattamento in modo corretto, gli esiti terapeutici migliorano sensibilmente. Ma “in modo corretto” è la chiave: servono informazione, supporto, consapevolezza. Non bastano la buona volontà o l’amore incondizionato. Serve anche una guida esterna — psicologica, educativa — che aiuti la famiglia a non cadere nei soliti schemi.
L’affettuosa distanza: esserci, senza invadere
A volte, l’unico vero atto d’amore possibile è fermarsi. Prendere le distanze, ma non con freddezza: con affetto, con rispetto, con fermezza. Vittorio la chiama “affettuosa distanza” — una delle espressioni più potenti dell’intervista.
«Sapere che ci sei, ma senza controllare. Sapere che sei pronto ad aiutare, ma solo se l’altro lo chiede. È questo il messaggio: noi ci siamo, ma adesso tocca a te.»
Questo tipo di distanza aiuta la persona in trattamento a sviluppare una nuova autonomia, una nuova identità, che non sia più fondata sulla malattia né sulla dipendenza dagli altri. Solo così può nascere una relazione adulta e sana, non più mediata dalla sostanza né dal bisogno.
4. L’illusione del salvatore
Non esistono magie, ma percorsi
Quando una persona entra in comunità o inizia un percorso terapeutico, spesso le aspettative — da parte dei familiari, ma anche del paziente stesso — sono altissime. Si cerca una svolta immediata, una trasformazione radicale. Come se bastasse trovare “il terapeuta giusto” o “la struttura migliore” per risolvere tutto.
Ma la realtà è diversa. «Il terapeuta non è un salvatore, e la comunità non è un luogo magico dove si guarisce per osmosi», dice con franchezza Vittorio. Anche i professionisti più esperti e dedicati hanno limiti, come ogni essere umano. Possono accompagnare, contenere, orientare. Ma non possono decidere al posto di chi è in cura. Né portarlo sulle spalle fino alla fine del cammino.
La guerra deve essere sua
Questa è forse la verità più dura da accettare, ma anche la più liberante: la guerra contro la dipendenza non può essere combattuta da altri. I familiari possono essere alleati. I terapeuti possono essere guide. Ma l’unico che può davvero combattere è chi sta male.
«Possiamo lottare al suo fianco, ma non al suo posto. Se non diventa la sua guerra, non ci sono percorsi che tengano.»
Per questo, anche quando la persona sembra pronta, anche dopo mesi o anni di percorso, non si può abbassare la guardia. Non si può delegare tutto alla terapia o alla struttura. Serve una responsabilità personale che maturi nel tempo, e che — quando si accende — diventa il vero punto di svolta.
5. Messaggi forti per le famiglie
Un messaggio di verità, e di speranza
Ci sono parole che fanno bene. Non perché siano dolci, ma perché sono vere. Questo è uno dei valori più grandi che vogliamo offrire con la Fondazione: dire la verità con empatia, anche quando fa male, anche quando richiede coraggio. Le parole di Vittorio Tanzi sono un faro per chi sta affrontando l’oscurità della dipendenza in famiglia.
“Chi si cura, lo fa con grande fatica. Ma può farcela.”
Non esistono scorciatoie. Curarsi è faticoso, doloroso, lungo. Richiede perseveranza, tempo, cadute e ripartenze. Ma funziona. Funziona davvero. Anche per chi sembrava perduto. Anche per chi era già stato rifiutato da tutto e da tutti. La condizione è una sola: che la persona voglia davvero cambiare. Se quel seme esiste, anche se è coperto dal buio, può germogliare.
“Raccontate anche le cose peggiori. Non c’è giudizio. È malattia, non vizio.”
La vergogna è un muro. La paura del giudizio paralizza. Ma le dipendenze non sono colpa, non sono vizio, non sono debolezza morale. Sono una malattia. E come tutte le malattie, vanno nominate, raccontate, affrontate. Anche le cose più dure. Anche quelle che sembrano indicibili. Perché solo dando un nome al dolore si può iniziare a curarlo.
“Non abbiate paura di essere fermi, anche se vi sentite cattivi.”
A volte, l’amore richiede di essere fermi. Di dire no. Di allontanarsi. Di smettere di coprire, giustificare, sostenere. È doloroso, certo. Ma può essere l’unico modo per smuovere qualcosa. Per permettere alla persona di toccare il fondo e — da lì — iniziare a risalire.
«La paura più grande delle famiglie — dice Vittorio — è che se si allontanano, il figlio o la figlia possa morire. Ma a volte è proprio stando troppo vicini, troppo presenti, che si impedisce alla persona di capire quanto è grave la situazione.»
Non è facile. Ma è possibile. E non siete soli.
6. La speranza fondata
Non tutti ce la fanno. Ma chi ce la fa… illumina il cammino
Quando si parla di dipendenza, la tentazione è sempre quella di vedere tutto nero o tutto bianco. Ma la verità — come sempre — è nel mezzo. Non tutti ce la fanno, è vero. Ma chi ce la fa, spesso lo fa in modo profondo, trasformativo. E quella trasformazione diventa una luce per gli altri.
Vittorio lo dice con lucidità e tenerezza insieme:
«Quando, dopo anni, qualcuno torna da me e mi dice: quello che mi è successo in comunità è stato utile, capisco che è valsa la pena. Anche solo per uno.»
Sono storie di chi ha toccato il fondo, è passato attraverso il dolore, ha combattuto la propria guerra. Persone che magari erano già state respinte da altre strutture, che sembravano “irrecuperabili”, e invece — con tempo, pazienza e alleanze — hanno ritrovato una vita degna, libera, autonoma.
I “grazie” che arrivano anni dopo
Una delle immagini più forti emerse nell’intervista è quella di chi torna dopo dieci anni. A volte, silenziosamente. A volte, portando un regalo, una lettera, un abbraccio. Un “grazie” sussurrato, ma pieno di significato. Non solo per il terapeuta, ma anche — idealmente — per chi ha creduto in quella persona quando nemmeno lei ci credeva più.
Questi ritorni sono testimonianze vive: non spot, non slogan, ma prova concreta che il cambiamento è possibile, anche nelle situazioni più gravi. E ci ricordano che, per quanto lungo e difficile, il percorso può portare alla libertà. E alla riconoscenza.