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La lettera di Laura

Se un giorno mi avessero detto

Se un giorno mi avessero detto che avrei trascorso quattro anni della mia vita a ricostruire l’esistenza di mio fratello, molto probabilmente non ci avrei creduto.

Eppure i segnali c’erano tutti, ed erano tutti ben riconoscibili. Il nervosismo, gli atteggiamenti scontrosi, l’inappetenza seguita da una fame improvvisa, l’insofferenza, l’euforia incontrollata. L’insonnia, l’irrequietezza, la paranoia. Ogni sintomo era un campanello d’allarme che non sapevo riconoscere.

Se potessi andare ancor più indietro nel tempo, i primi segnali li ritroverei forse nelle giornate di quando eravamo bambini, nelle domeniche trascorse in famiglia, nei pomeriggi invernali mentre svolgevamo i compiti. Se andassi indietro nel tempo, se davvero potessi farlo, forse riuscirei a individuare precisamente emozioni e stati d’animo che hanno inevitabilmente condizionato le nostre vite. Quella di mio fratello in maniera così traumatica.

Piccole cose come l’ansia di un cattivo voto a scuola, o cose più grandi come il desiderio di ricevere l’abbraccio da un padre. E proprio la potenza, l’indispensabilità di quell’abbraccio, l’ho trovata  anni dopo in comunità, quando ho visto due corpi, fino a quel momento quasi sconosciuti, unirsi in un gesto impacciato ma pieno di un’emozione trattenuta per troppo tempo. Ho visto le lacrime sgorgare dagli occhi di mio padre, ho sentito la sua voce rotta dall’emozione mentre sussurrava parole di conforto.

Da quel momento ho compreso quanto il fantasma di quel semplice gesto abbia lavorato come un tarlo nell’inconscio di mio fratello, a sua totale insaputa, condizionandone interamente la vita. Ho riflettuto sul fatto che quel fantasma poteva essere riconosciuto ed elaborato; ho realizzato quanto mio fratello abbia invece adattato la sua vita a quel disagio, quanto abbia cercato nel tempo, e fino all’età adulta, quel riconoscimento emotivo che poteva risolversi semplicemente in un abbraccio. Forse, in quegli abbracci mancati, in quel bisogno di amore e di approvazione rimasto inappagato, si nascondevano i semi della sua dipendenza.

 Così, mi sono arresa all’idea che una sofferenza inespressa e trascinata nel tempo può portarti a compiere gesti disperati. Può portare all’isolamento, alla violenza, alla dipendenza. Ma c’erano anche la mia ingenuità, la mia fragilità, la mia ignoranza. Perché io lo avevo sentito solo in televisione o letto sui giornali che la droga è un mostro che distrugge la vita. Non sapevo che sarebbe entrata  di colpo nella nostra esistenza, stravolgendo vite e infrangendo sogni: quelli di mio fratello, dei miei genitori, e senza dubbio anche i miei. La dipendenza non distrugge solo chi ne soffre, ma lascia ferite profonde in tutta la famiglia, creando un dolore silenzioso e invisibile.

Mi ci è voluto molto tempo per capire che la tossicodipendenza è una malattia e che non si fa uso di sostanze per divertimento. O meglio, per la ricerca di euforia si può anche iniziare, ma poi si perde il controllo: del corpo, della mente, del tempo.

Quando ho capito che mio fratello faceva uso di sostanze, la mia reazione è stata istintiva, una reazione che oggi, con la consapevolezza che ho acquisito, sicuramente non avrei. Era la vigilia di Natale quando gli dissi che della sua vita poteva fare quel che voleva purché non influenzasse negativamente la mia e quella dei miei figli. Era la vigilia di Natale, l’ultima che abbiamo trascorso insieme, quando lui mi rispose “io non giudico le tue scelte, tu non giudicare le mie”.

Quella fu la prima e l’ultima volta che affrontammo l’argomento senza in verità mai affrontarlo davvero, perché di fatto non abbiamo mai pronunciato la parola “droga”. Da quel momento ci siamo visti poche altre volte; abitando in città diverse le occasioni erano poche e io, da quel giorno, avevo deciso che sarebbero state ancora meno. Non tolleravo trascorrere il tempo nella sua casa ma in camere diverse perché lui non riusciva a stare in piedi o ad avere una conversazione che avesse del senso; non tolleravo che i suoi nipoti dovessero vederlo in uno stato così poco dignitoso. E, soprattutto, non riuscivo a concepire che un uomo di 40 anni, istruito, intelligente e realizzato professionalmente, potesse cadere nella trappola delle sostanze. In quel momento pensavo solo che non avevo più una persona cui raccontare la mia vita, le mie ambizioni, i miei problemi.

Nella mia testa non avevo più un fratello e prendere le distanze fu l’unica cosa di cui io fui capace.

Ho vissuto mesi stracolmi di dolore, ansia, paura. Non sapevo se fosse più giusto parlare con qualcuno o lasciare che le cose fluissero. Ho pensato che prima o poi mio fratello si sarebbe reso conto da solo di quello che stava succedendo, avrebbe sentito la mia mancanza e sarebbe “guarito”. Ho pensato che chiedere aiuto avrebbe significato rendere grande un problema per il momento ancora piccolo. Le mani mi tremavano e sentivo il cuore battere forte nel petto. Un nodo alla gola mi impediva di parlare. Ero sopraffatta dalla tristezza e dall’angoscia. Mi tormenta il pensiero di non aver fatto abbastanza, di aver ignorato i segnali, di aver perso tempo prezioso.

Raccontare quello che vive un familiare di un tossicodipendente è difficilissimo.

Come dicevo, ci ho messo un po’ di tempo per capire che la tossicodipendenza è una malattia. Facilissimo ammalarsi, difficilissimo uscirne, impossibile uscirne da soli. E lo stesso vale per un familiare: ho capito più di ogni altra cosa che non si deve provare vergogna a chiedere aiuto, che, per quanto straziante possa sembrare raccontare la condizione in cui versa un familiare, non ci sarà nulla di più straziante di non sapere come aiutarlo.

 In questi anni ho capito che non chiedere aiuto, non intervenire, in qualche modo significa scegliere di ignorare il problema. Significa decidere di sottovalutare i piccoli segnali. Significa fare quello che ho fatto io, ossia pensare che tanto prima o poi passa, che il problema deriva da una brutta delusione, da un voto a scuola, da un fallimento lavorativo o semplicemente dalle “cattive frequentazioni”.

Se mi avessero detto cinque anni fa che mio fratello da solo non ce l’avrebbe mai fatta, che la sua prima volta non sarebbe mai stata la sua unica volta, io non ci avrei creduto. Soltanto oggi ho la certezza che se io avessi chiesto aiuto queste cose mi sarebbero state spiegate e avrei compreso la gravità della situazione.

Qualcuno mi avrebbe raccontato che la droga modifica il sistema nervoso centrale, mi avrebbe detto che le sostanze hanno effetti sulla corteccia cerebrale, sulla memoria e su tanto altro ancora. Avrei riconosciuto i segnali, probabilmente sarei stata indirizzata su come comportarmi e non sarei scappata.

Mi sarebbe stato spiegato che delle sostanze finisci per non poterne fare più a meno, che assumerle diventa una necessità su cui non eserciterai più il controllo, un bisogno irrefrenabile che riuscirà sempre ad avere il sopravvento.

Se io avessi avuto il coraggio di chiedere aiuto mi sarebbe stato detto che nessuno è immune dal rischio di cadere nella dipendenza, a prescindere dall’età, dall’istruzione, dalla posizione sociale. Mi sarebbe stato spiegato con le parole giuste quello che avrei potuto fare e che non ho fatto, in che maniera avrei potuto responsabilmente agire, in che maniera avrei potuto positivamente costruire.

La fondazione “Laura e Alberto Genovese” nasce esattamente con questo scopo. Aiutare chi come me si è ritrovato un fratello nel vortice delle dipendenze e non ha saputo cosa fare.

La Fondazione nasce con lo scopo di aiutare persone, genitori, fratelli, parenti a capire quali azioni intraprendere e quali no. Lavorare sulle famiglie, sulle incomprensioni, sui disagi che molto spesso sono al loro interno, comprenderne errori, distanze, silenzi, potrebbe servire ad evitare futuri drammi. Intervenire nei momenti di crisi, ascoltare storie, fornire strumenti utili, potrebbe essere per molti addirittura salvifico.

 È  questo lo scopo della Fondazione: offrire aiuto, conforto e luce. In punta di piedi, ma con determinazione, sostenendo persone e famiglie nei momenti di crisi, cercando di chiarire disagi, facendo capire che chiedere aiuto è e sarà sempre la più alta e nobile forma di coraggio.

Rompere il silenzio è fondamentale e condividere il dolore è il primo passo per superarlo.

Laura Genovese