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La storia di Gianni (prima parte) – “Il crollo silenzioso”

Introduzione

Gianni ha usato sostanze per più di trent’anni. Dai 13 ai 38 anni, senza interruzioni significative. Eppure, chi lo conosceva non avrebbe mai pensato di definirlo un “dipendente”. Sempre attivo, imprenditore, padre presente, capace di alzarsi ogni mattina, di lavorare, di fare sport. Un uomo, in apparenza, pienamente funzionale.

Un equilibrio apparente

“Mi svegliavo presto, lavoravo, mi allenavo. Nessuno poteva dire che stavo male. Nemmeno io.”

La dipendenza non era quella che si vede nei film. Era intessuta nella normalità, nascosta sotto l’iperattività, il successo, la cura per il corpo, la velocità della vita. E quando tutto sembrava in ordine, Gianni riusciva comunque a trovare spazio – e motivazione – per usare.

“Mi sono sempre curato, sempre svegliato, sempre presente. Non ho mai fatto il ‘tossico’ classico. Ma non riuscivo a stare senza.”

Questa apparente coerenza tra prestazione e consumo ha reso difficile, per lui e per chi gli stava intorno, riconoscere il problema. Perché sembrava tutto sotto controllo. Perché sembrava che Gianni, in fondo, ce la facesse. Ma quella forza era, in parte, una maschera.

“Ho sempre avuto aziende, responsabilità, famiglia. Ma tutto andava avanti sopra una crepa. Una crepa che, prima o poi, doveva aprirsi.”

E così è stato. Non con un crollo improvviso, ma con un’incrinatura emotiva profonda. La prima, reale, frattura nel suo equilibrio apparente sarebbe arrivata di lì a poco. Ma all’inizio, tutto sembrava funzionare perfettamente.

Il crollo silenzioso

La prima vera frattura nella vita di Gianni arriva dopo il fallimento di un’azienda a cui teneva profondamente. Non è una caduta rumorosa, non è ancora la crisi visibile. Ma dentro, qualcosa si rompe. Una rabbia muta, un dolore nascosto, un senso di fallimento che non può — e non vuole — essere mostrato.

Quella pressione, il bisogno di apparire solido agli occhi degli altri, lo porta a implodere. A chiudere tutto dentro. Ma l’energia repressa cerca una via d’uscita, e lo fa nel modo peggiore: scatenando un disturbo bipolare maniacale. Gianni comincia a trasformarsi in un altro.

“Io mi sentivo Superman. Avevo un’energia addosso devastante. Dormivo sei notti in sei mesi. Ero in un’altra dimensione.”

È il corpo che comincia a cedere. Non mangia, non dorme, non riesce a fermarsi. L’iperattività si trasforma in pericolo. Per sé, per gli altri. Ma lui si sente invincibile, al di sopra delle regole. Inizia a usare cocaina non per divertirsi, ma per “calmarsi”, per abbassare lo stato di iper-eccitazione continua.

“La usavo per scendere. Era diventata la mia medicina sbagliata. Non riuscivo a fermare la testa.”

Intorno, chi lo ama cerca di intervenire. Ma è difficile. Perché Gianni non appare malato, ma solo più intenso, più nervoso, più inarrestabile. Finché anche la famiglia si accorge che quello non è più lui.

“Non avevo più lo sguardo di prima. Ero ingestibile. Ma io non vedevo il problema. Pensavo di stare benissimo.”

Il crollo vero, però, è ancora nascosto. Arriverà più avanti, quando la fase maniacale lascerà il posto a una depressione acutissima. Ma già qui, inizia la discesa. Una discesa che solo l’amore del padre riuscirà, a un certo punto, a interrompere.

Quando anche la famiglia non basta più

Durante la fase maniacale, Gianni rifiuta ogni tentativo di aiuto. Si sente nel pieno delle forze, al massimo delle sue capacità. Chi prova ad avvicinarsi, viene respinto con durezza. Anche la sua famiglia. Anche chi gli vuole bene.

“Tutti mi dicevano che c’era qualcosa che non andava. Ma io mi sentivo benissimo. Non ascoltavo nessuno.”

L’unica persona a cui concede uno spiraglio è suo padre. Una figura centrale, autorevole, amata. È lui che riesce a farsi ascoltare. Non con la forza, ma con la presenza. È grazie a lui che Gianni fa il primo passo. Va da uno psichiatra. Inizia un trattamento farmacologico per abbassare lo stato maniacale.

“Era l’unico che ascoltavo. Non perché mi costringesse, ma perché mi fidavo.”

Ma i farmaci non bastano. La fase maniacale è potente, resistente. E quando finalmente si spegne, lo fa lasciando spazio al vuoto. A un dolore nero, totale, che Gianni descrive senza mezzi termini: “non era una depressione normale. Era la morte.”

“Piangevo sul divano per ore. Non avevo il coraggio neanche di far uscire mia moglie di casa. Volevo solo scomparire.”

È qui che crolla. Ed è qui che finalmente chiede aiuto. Non per salvare il lavoro. Non per la famiglia. Ma perché sente che da solo non ce la fa. Si rivolge a una comunità terapeutica. Entra al Crest.

“Appena sono entrato ho sentito una cosa che non avevo mai provato: libertà. Là dentro mi sono sentito a casa. Il mondo fuori era la mia prigione.”

In quel momento, per la prima volta, la famiglia non è più il motivo. È il contesto. È la cornice. Ma la scelta è sua. E solo così può funzionare. Perché la cura, Gianni lo capisce, non è un atto per gli altri. È una responsabilità verso se stessi.

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Per chi è in difficoltà: un messaggio di speranza

Se stai attraversando una situazione simile, o se una persona a te vicina sta affondando nel silenzio, sappi che non sei solo. Le dipendenze possono avere mille volti, anche quelli più insospettabili. Ma c’è sempre un momento in cui si può fermare la discesa. Un momento per chiedere aiuto. O per offrirlo.

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